Introduzione
Negli ultimi anni, il mondo del lavoro ha assistito a una trasformazione radicale nei comportamenti dei professionisti, soprattutto tra i più giovani. Termini come quiet quitting, loud quitting e job hopping sono entrati nel lessico quotidiano di HR manager, recruiter e imprenditori, generando riflessioni e interrogativi profondi su come sta evolvendo il rapporto tra individuo e azienda. Sono fenomeni che hanno suscitato un’attenzione significativa in particolare tra le generazioni più giovani, tra cui i Millennial e la Generazione Z.
In questo articolo analizzeremo definizioni, origini, cause, conseguenze e strategie per comprendere e affrontare queste tendenze.
INDICE DEI CONTENUTI
Quiet quitting, loud quitting e job hopping: definizioni e differenze
Quiet quitting
Letteralmente significa “dimissioni silenziose”: non significa lasciare il lavoro, ma smettere di andare oltre il minimo contrattuale.
È un fenomeno caratterizzato dai lavoratori che limitano il loro operato a quanto esplicitamente richiesto dalle loro mansioni, disimpegnandosi effettivamente da qualsiasi responsabilità o compito aggiuntivo al di là del minimo indispensabile. Le conseguenze? Diminuzione della produttività, minore partecipazione alle riunioni e una netta mancanza di entusiasmo per il lavoro.
Le motivazioni alla base del quiet quitting spesso ruotano attorno al desiderio di un equilibrio più sano tra vita privata e lavoro. I lavoratori possono sentirsi sovraccaricati o poco apprezzati, e questo li spinge ad adottare un approccio più distaccato verso il loro ruolo.
Questo fenomeno può manifestarsi in vari modi, come un assenteismo insolitamente alto o un evidente calo dell’impegno sul posto di lavoro. Tuttavia, è importante riconoscere che il quiet quitting non implica un’intenzione immediata di lasciare il lavoro: piuttosto, riflette un periodo prolungato di disimpegno prima di una eventuale dimissione.
Ovviamente questa forma di disimpegno da parte di un lavoratore può influire negativamente sull’individuo stesso, i suoi colleghi e sull’azienda. Per chi lo vive in prima persona può portare a sentimenti di stagnazione e insoddisfazione, per i colleghi a un senso di ingiustizia e rancore, mentre per l’azienda comporta sfide in termini di coesione del team e produttività complessiva.[1][2][3][4]
Loud quitting
All’opposto rispetto al quiet quitting, il loud quitting è una forma di reazione forte e visibile al malessere lavorativo. In questo caso, la persona si licenzia manifestando apertamente i motivi della sua scelta: può farlo attraverso post sui social, confronti accesi con i manager o lettere di dimissioni molto esplicite. È un addio che fa rumore.
Questo fenomeno è emerso come reazione alle culture lavorative tossiche, con i lavoratori più giovani sempre più pronti a esplicitare con forza le proprie lamentele, tra cui salari bassi e ambienti di lavoro poco collaborativi. Il loud quitting può servire come forma di protesta contro politiche aziendali che non sono in linea con i valori dei professionisti, portando a volte a un cambiamento visibile nelle dinamiche lavorative quotidiane e alla possibilità di avviare conversazioni più ampie sull’azienda stessa.
Ovviamente rischia di comportare problematiche in tema reputazionale, sia per il lavoratore sia per l’azienda: tutto ciò che si sposta anche sui social, in una vetrina pubblica, diventa poi più difficile da gestire.[5][6]
Job hopping
Ora vediamo invece quando le dimissioni diventano una sorta di strategia: il job hopping è la pratica di cambiare spesso lavoro, in media ogni 1-2 anni, alla ricerca di migliori condizioni economiche, crescita professionale o semplicemente maggiore soddisfazione. Questa tendenza ha guadagnato importanza negli ultimi anni, poiché le persone sono diventate più disposte a esplorare diverse opportunità e percorsi professionali, allontanandosi dalla tradizionale aspettativa di un impiego a lungo termine con un unico datore di lavoro.
Il job hopping può portare a risultati sia positivi sia negativi: se da un lato può favorire la crescita professionale e il potenziale salariale, dall’altro può impedire la coesione del team, la conoscenza approfondita della cultura aziendale e il sentirsi parte di un progetto più ampio.[7][8][9]
Questi tre fenomeni sono degni di nota in quanto evidenziano il cambiamento delle attitudini dei lavoratori, soprattutto più giovani, nei confronti dell’impiego e dell’impegno sul posto di lavoro.
Molti professionisti sostengono di sentirsi sottovalutati o sovraccaricati di lavoro e usano il quiet quitting come risposta al malcontento, mentre altri scelgono il loud quitting per esprimere più esplicitamente e teatralmente la loro insoddisfazione. Il job hopping rappresenta invece una strategia proattiva per l’avanzamento della carriera, spinta dal desiderio di ottenere migliori opportunità, compensi e condizioni di lavoro che spesso non si riescono a raggiungere in egual modo rimanendo a lungo nella stessa azienda. Complessivamente, queste tendenze illustrano un cambiamento culturale significativo nel mondo professionale, dove le aspettative convenzionali di durata del rapporto e impegno verso l’azienda per cui si lavora sono sempre più messe in discussione.
In mezzo a queste dinamiche in evoluzione, le aziende affrontano sfide nel mantenere la produttività e la soddisfazione dei propri lavoratori, alimentando discussioni sulla cultura aziendale, sull’impegno di tutti coloro che sono in azienda e sulle strategie di retention. Per le organizzazioni, l’ascesa del quiet quitting e del job hopping può comportare una diminuzione della coesione del team e della cultura aziendale, mentre il loud quitting può portare a caos e malcontento generalizzato, a meno che non lo si prenda come serio spunto di riflessione per capire se ci sono dei cambiamenti necessari da apportare nelle pratiche lavorative. Indubbiamente, sono tutti segnali da prendere in considerazione e di certo da non minimizzare.
Origine e diffusione dei nuovi comportamenti nel mondo del lavoro contemporaneo
La pandemia da COVID-19 ha rappresentato uno spartiacque. Ha accelerato la digitalizzazione, imposto riflessioni profonde su tempo, scopo e benessere, e portato milioni di persone a rivalutare le proprie priorità. In questo scenario si sono intensificati fenomeni già latenti.
Il quiet quitting è esploso come hashtag su TikTok nel 2022[10], riflettendo la stanchezza verso il “culto della produttività”. Ricordiamoci che in quel momento venivamo dall’ondata di “great resignations” del 2021 in cui moltissime persone, “ispirate” dalla pandemia, avevano deciso di licenziarsi per inseguire sogni, passioni e uno stile di vita più sostenibile. Il quiet quitting, quindi, nasceva sulla coda lunga del trend, più drastico, dell’anno precedente.
Il loud quitting si è affermato in un clima di maggiore consapevolezza dei propri diritti e della possibilità di esprimersi pubblicamente, anche grazie ai social.
Il job hopping è diventato una strategia naturale per una generazione che non crede più nel lavoro a vita e preferisce costruire un portfolio variegato.
Questi comportamenti non nascono dal nulla, ma si innestano su una trasformazione culturale più ampia, dove lavoro, identità e autorealizzazione si intrecciano in modo nuovo.
Alla radice di questi fenomeni troviamo spesso gli stessi fattori.
- Burnout e overload: carichi di lavoro eccessivi, scadenze serrate e mancanza di riconoscimento possono portare a un esaurimento emotivo e fisico.
- Stress da disallineamento valoriale: quando l’ambiente di lavoro è percepito come incoerente con i propri valori personali, si genera disaffezione.
- Mancanza di wellbeing aziendale: ambienti che non promuovono il benessere psico-fisico dei collaboratori (assenza di flessibilità, supporto psicologico, possibilità di crescita) spingono alla disconnessione emotiva.
In molti casi, il quiet quitting è una forma di autodifesa. Il loud quitting, invece, può essere la reazione a una lunga frustrazione ignorata. Il job hopping diventa allora la via più accessibile per provare a trovare un contesto migliore.
Conseguenze sul percorso professionale e sulla reputazione
Chi adotta questi comportamenti può trarne benefici immediati, ma anche rischi a lungo termine.
Il quiet quitting, se prolungato, può compromettere la crescita professionale: si è visti come “presenti ma invisibili”.
Il loud quitting, pur essendo un gesto di sincerità, può danneggiare la reputazione del lavoratore se percepito come aggressivo o distruttivo.
Il job hopping è, dei tre, il fenomeno più sfaccettato.
Se fatto con consapevolezza, può portare diversi vantaggi.
- Crescita accelerata: nuove esperienze, nuovi ambienti, nuove competenze.
- Contrattazione salariale più forte: spesso chi cambia guadagna più velocemente di chi resta.
- Espansione del network: ogni cambiamento è un’occasione per creare relazioni professionali.
Tuttavia, esistono anche dei rischi.
- Superficialità nelle competenze: saltare troppo in fretta può impedire una reale padronanza dei ruoli.
- Difficoltà di inserimento: i recruiter potrebbero temere una bassa retention.
- Instabilità personale: cambiare lavoro frequentemente può influenzare anche equilibrio e benessere.
La chiave è la coerenza narrativa: ogni passaggio deve avere un senso, un obiettivo, una motivazione chiara. E questo deve emergere bene anche nel curriculum e nel colloquio: è importante dimostrare che ogni scelta è stata matura e ponderata, mettendo così in luce la capacità di mettersi in discussione, il desiderio di crescita e l’attenzione al proprio benessere.
Lettura dei trend generazionali: Millennial, Gen Z e il cambiamento
Abbiamo sottolineato varie volte come i fenomeni di quiet quitting, loud quitting e soprattutto job hopping interessino maggiormente i lavoratori più giovani: questa tendenza è molto in linea con il mood che le nuove generazioni hanno nei confronti del lavoro.
Nel report “Comprendere per competere: insight e sfide nella talent attraction delle nuove generazioni”, recentemente stilato da Grafton, emerge chiaramente come Millennial e Gen Z abbiano una spiccata propensione al cambiamento, visto sempre di più come una leva di crescita, tanto nella vita personale quanto in quella professionale.
Il 77% degli intervistati vede di buon occhio il cambiamento perché considerato un’opportunità capace quasi sempre di generare possibilità positive. Un terzo del campione dichiara di aver cambiato o di voler cambiare lavoro ogni 1-2 anni o ogni 3-4 anni: questo tipo di risposta è maggiore tra i giovani, con un’incidenza del 42% tra gli under 30 e tra i laureati, dove si raggiunge il 43%. Questi dati sono verosimilmente legati all’idea, sempre più diffusa tra le nuove generazioni, che la mobilità
professionale sia il modo migliore per avere una crescita professionale, accumulare esperienze e cercare coerenza tra aspirazioni personali e contesto lavorativo.
Basti pensare che 1 intervistato su 4 dichiara di pensare di poter cambiare lavoro nei prossimi 6 mesi. Ma cosa li spinge a cercare una nuova occupazione? Il 40% lo fa per questioni di stabilità economica o sicurezza del lavoro, il 37% lo fa per retribuzioni o benefit migliori e il 32% ricerca un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata.
Quindi queste generazioni non cercano solo benefit, ma anche motivazione, flessibilità, inclusione, work life balance e benessere a 360°.
Come le aziende possono intercettare e gestire questi segnali
I segnali[11] di quiet quitting, loud quitting e job hopping non arrivano all’improvviso: sono preceduti da indizi spesso evidenti. Vediamone alcuni:
- Calo dell’engagement
- Feedback negativi non presi in carico
- Assenteismo crescente
- Rifiuto di nuove responsabilità
- Comunicazione passiva-aggressiva
Per intercettarli, le aziende devono sviluppare una cultura dell’ascolto continuo. Per farlo, possono adottare diversi strumenti:
- Survey sul clima organizzativo
- Colloqui periodici one-to-one
- Analisi predittive sui dati HR (assenze, performance, rotazione)
- Canali anonimi di feedback
E per prevenire e ridurre i fenomeni descritti, le aziende devono attivare strategie HR centrate sul benessere reale.
- Welfare evoluto: supporto psicologico, flessibilità oraria, smart working reale.
- Leadership formata: manager capaci di ascolto, empatia e feedback costruttivo.
- Chiarezza nei percorsi di crescita: evitare la sensazione di stagnazione.
- Riconoscimento e valorizzazione: celebrare il contributo delle persone, anche quello “ordinario”.
- Spazi di dialogo intergenerazionale: integrare le aspettative delle diverse età.
In sintesi, la retention non si ottiene con vincoli, ma con valore percepito: non si tratta di “trattenere” le persone a tutti i costi, ma di creare un contesto in cui restare abbia senso perché è ciò che rende le persone felici.
Conclusione: consigli pratici per candidati e datori di lavoro
I fenomeni del quiet quitting, loud quitting e job hopping sono la cartina di tornasole di un cambiamento culturale profondo. Non vanno giudicati, ma compresi.
Per i candidati, i consigli sono:
- Ascoltarsi prima di decidere (quiet quitting non dev’essere la norma)
- Comunicare in modo costruttivo (anche quando si lascia un lavoro)
- Costruire una narrazione coerente del proprio percorso (anche se frammentato)
Per le aziende:
- Investire nel benessere e nel senso del lavoro
- Allenare l’empatia manageriale
- Adottare modelli organizzativi più flessibili e inclusivi
Il lavoro di oggi non è più solo un contratto, ma è un’esperienza: come ogni esperienza, deve essere significativa, equa e sostenibile per tutte le parti che la vivono.
Fonti:
[1] https://www.modernhealth.com/post/what-is-quiet-quitting
[2] https://www.workitdaily.com/develop-your-skills-at-work
[5] https://www.linkedin.com/pulse/what-loud-quitting-how-do-you-prevent-joe-kiedinger-aoi4c/
[6] https://www.culturemonkey.io/employee-engagement/loud-quitting/
[7] https://builtin.com/articles/job-hopping
[8] https://www.reveliolabs.com/news/macro/job-hopping-is-a-feature-not-a-bug-for-gen-zers/
[9] https://pursuit.unimelb.edu.au/articles/how-job-hopping-managers-undermine-corporate-culture